Nato nel 1896 a Neuchâtel, città svizzera adagiata sulle rive dell’omonimo lago, è cresciuto in una famiglia colta: il padre, professore universitario di storia medievale, lo ha sempre spronato alla ricerca. Jean si è presto rivelato un bambino prodigio, e ha trovato nella biologia la chiave privilegiata per comprendere e studiare il mondo. A soli dieci anni ha pubblicato sul giornale cittadino un trattato sul passero albino. Durante gli anni del liceo si è dedicato intensamente alla biologia marina, in particolare allo studio dei molluschi, tanto da ricevere l’offerta di curare la sezione di malacologia del Museo di Storia Naturale di Ginevra. Il giovanissimo Piaget ha però preferito ultimare gli studi, laureandosi in Scienze naturali all’Università di Neuchâtel. In quegli anni si è avvicinato al pensiero del filosofo Henri Bergson, in particolare al concetto di “slancio vitale”, inteso come forza interna a ogni organismo che lo spinge verso l’evoluzione.
“La conoscenza è un processo di costruzione continua”.
L’epistemologia genetica, 1970
Se la biologia ha avuto sicuramente un grande influsso sullo sviluppo delle sue teorie, un altro passaggio fondamentale della sua formazione è stato il semestre trascorso, nel 1918, presso la Clinica Psichiatrica Burghölzli dell’Università di Zurigo, dove è entrato in contatto con Carl Gustav Jung e si è interessato alle teorie psicoanalitiche di Freud. In seguito, sempre più orientato verso la psicologia, si è trasferito a Parigi, iniziando a lavorare presso l’École de la Rue de la Grange-aux-Belles, fondata dallo psicologo Alfred Binet, inventore di un test per identificare carenze intellettive nello sviluppo dei bambini. Qui Piaget, incaricato di somministrare il test ai ragazzi, ha cominciato a notare che i bambini fornivano risposte diverse secondo le fasce di età, seguendo una logica legata al loro stadio di sviluppo. Queste osservazioni lo hanno spinto a intraprendere i primi studi di psicologia evolutiva, partendo dall’ipotesi, all’epoca tutt’altro che ovvia, che i processi cognitivi dei bambini fossero qualitativamente differenti da quelli degli adulti.
Divenuto direttore dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra nel 1921, ha proseguito le sue sperimentazioni sugli schemi cognitivi dei bambini. Anche la vita familiare, seguita al matrimonio con la sua collaboratrice Valentine Châtenay, nel 1923, è diventata occasione di ricerca: la coppia ha infatti monitorato lo sviluppo intellettuale e linguistico dei tre figli durante l’infanzia, nel tentativo di verificare le ipotesi dello psicologo.
Piaget è così giunto a elaborare una teoria dello sviluppo cognitivo in cui biologia e psicologia, i suoi principali ambiti di studio, trovano una sintesi. Nella sua opera Lo sviluppo mentale del bambino (1947), scrive:
“Lo sviluppo psichico, che comincia con la nascita e termina con l’età adulta, è paragonabile alla crescita organica: come quest’ultima, consiste essenzialmente in un cammino verso l’equilibrio”.
Per Piaget, a generare lo sviluppo non è tanto l’intervento dell’adulto o di una figura più esperta, quanto l’esplorazione autonoma del bambino, che deve quindi essere incoraggiata. Scrive infatti in Psicologia e pedagogia (1969):
“Ogni volta che si insegna prematuramente a un bambino un concetto che avrebbe potuto scoprire da solo, gli si impedisce di comprenderlo a fondo”.
Attraverso l’esplorazione, il bambino attiva i due meccanismi principali dello sviluppo: l’assimilazione e l’accomodamento. Nell’assimilazione, lo schema mentale già posseduto dal bambino integra una nuova informazione proveniente dall’ambiente. Poniamo, per esempio, che un bambino, abituato a portare gli oggetti alla bocca, si trovi di fronte a un nuovo giocattolo di forma e consistenza diversa: probabilmente lo porterà, come richiesto dal suo schema mentale, alla bocca, acquisendo così nuove informazioni, assimilandole a quelle che già possiede. Ma se invece si trovasse davanti un oggetto pesante che non può sollevare, il suo tentativo di portarlo alla bocca risulterebbe vano. A quel punto, il suo schema mentale dovrebbe subire un accomodamento imposto dall’ambiente, adeguandosi alla novità riscontrata.
In entrambi i casi, come in qualsiasi organismo vivente, lo scopo della mente è quello di raggiungere uno stato di equilibrio con l’ambiente, che offre di continuo nuovi stimoli. Per farlo è necessario progredire nello sviluppo cognitivo che, come accade per l’evoluzione umana, secondo Piaget, attraversa una serie di stadi classificabili:
- Fino ai due anni: stadio sensomotorio, in cui il bambino esplora il mondo attraverso i sensi e il movimento. In questa fase, per esempio, conosce di un giocattolo solo ciò che i sensi gli restituiscono: la sua consistenza, il suo gusto eccetera.
- Dai due ai sette anni: stadio preoperatorio, durante il quale inizia a rappresentare gli oggetti e a utilizzare simboli. Può ad esempio disegnare il giocattolo su un foglio o comunicarlo con le parole.
- Dai sette agli undici anni: stadio operatorio concreto, in cui sviluppa il pensiero logico e la capacità di eseguire operazioni come classificare, addizionare, sottrarre.
- Dai dodici anni: stadio operatorio formale, in cui il pensiero si svincola dalla concretezza e diventa pienamente astratto: il bambino è in grado di ipotizzare ed esprimere concetti che non può necessariamente sperimentare attraverso i sensi.
Dopo la Seconda guerra mondiale, Piaget è diventato presidente della Commissione svizzera per l’UNESCO e, nel 1955, ha fondato a Ginevra il Centro Internazionale di Epistemologia Genetica. In quegli anni le sue teorie si sono diffuse in tutta Europa, diventando un punto di riferimento imprescindibile. L’importanza attribuita da Piaget all’esplorazione attiva da parte dello studente è alla base di molte sperimentazioni pedagogiche in tutto il mondo. L’apprendimento per scoperta (Discovery learning) di Bruner, l’approccio di Reggio Emilia di Loris Malaguzzi e molti altri modelli del Novecento si sono ispirati a diverso titolo alle teorie dello psicologo svizzero.
Se Plutarco criticava la pedagogia classica affermando che l’allievo non fosse un vaso da riempire ma un fuoco da accendere, Piaget ha spostato il baricentro del processo di apprendimento, rendendo il bambino il vero protagonista, architetto del suo sviluppo mentale.