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20 Giugno 2025
20 giugno 2025

Guardando s’impara

Gli scenari educativi del co-viewing
di Maria Vittoria Alfieri
Tempo di lettura stimato: 7 minuti

Se è vero che oggi si discute tanto di podcast, reel e video brevi, molto più raramente si riflette su quanto possa insegnare la scatola luminosa che campeggia nel salotto di casa. Serie, film, documentari, programmi di informazione continuano a essere una presenza forte, ma poco pensata in chiave educativa. Eppure, cosa succede quando iniziamo a guardare (e commentare) insieme? Quando la visione diventa co-visione? Non parliamo di un semplice “guardare lo stesso programma”, ma di sceglierlo insieme e condividere commenti, emozioni e persino silenzi.

A casa la co-visione è ormai una pratica diffusa, anche grazie allo streaming e alle piattaforme con un’offerta sterminata di contenuti. Perché non importarla anche a scuola? In fondo oggi ogni aula ha il suo “grande schermo”, che sia una LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), un monitor o un videoproiettore. Guardare insieme non è tempo perso né un’alternativa all’insegnamento, ma può diventare a tutti gli effetti un momento formativo.
La conoscenza passa anche da una scena di un film, da un dialogo in una serie, o da un servizio del telegiornale, perché la scuola non può fermarsi all’ultima pagina del libro di testo, ma deve anche insegnare ad abitare il presente, quello che ogni studente incontra quando si carica lo zaino sulle spalle ed esce. In un mondo che, benché spesso guardi, non sa ancora leggere.

Ma facciamo un balzo indietro nel tempo. Da dove arriva il co-viewing?

Negli anni Cinquanta, in un’Italia segnata dal dopoguerra, pochi possedevano la Tv, molti la desideravano. Interi condomini si radunavano dall’inquilino fortunato che ne aveva una, tutti davanti allo schermo con la stessa attesa con cui oggi si entra in sala per vedere un film.

Poi è arrivato il boom economico e la televisione è entrata in tutte le case. È in questo nuovo scenario domestico che prende vita uno dei riti più iconici della cultura pop italiana, il primo esempio di co-viewing di famiglia: Carosello. In onda dal 1957 al 1977, non era una semplice raccolta di spot, ma un vero spettacolo quotidiano: brevi storie, sketch, cartoni animati che solo alla fine rivelavano la marca. La pubblicità diventava racconto, invenzione, piccola arte.
Il celebre jingle “Qui comincia Carosello” apriva ogni sera un momento attesissimo, soprattutto dai più piccoli, che sapevano cosa li aspettava dopo: “Dopo Carosello, tutti a nanna”. Ma prima si guardava insieme, si rideva, si commentava.
Con Carosello, la co-visione diventava un rito familiare che univa generazioni, creava ricordi comuni e, senza dichiararlo, contribuiva a educare al consumo, ai ruoli sociali e ai modelli di comportamento dell’Italia che cambiava.

Il rito familiare di Carosello

Ora facciamo un salto in avanti negli anni: la visione condivisa continua ad avere un ruolo importante, soprattutto nell’ambito domestico. Lo conferma la ricerca TVgether, realizzata da Ce.R.T.A. dell’Università Cattolica di Milano su commissione di Netflix, secondo la quale il 53% delle famiglie dedica alla co-visione da tre a nove ore a settimana, con una media generale di fruizione di contenuti video di otto ore a settimana. I giovani che praticano il co-viewing con i genitori dichiarano di non viverlo come un’imposizione, ma come un’occasione di divertimento e dialogo, un’opportunità di vivere un tempo comune, fatto di emozioni e confronti.
Nei ritmi frenetici dell’agenda quotidiana, lo stare insieme davanti a uno schermo offre un’opportunità preziosa di ascolto reciproco, in cui la narrazione diventa stimolo per esplorare temi complessi. Ambiente, diritti delle donne, bullismo, discriminazioni razziali, identità di genere, disabilità e relazioni affettive: sono solo alcuni dei nodi valoriali che emergono dal racconto audiovisivo e che, in famiglia, possono trasformarsi in spunti di confronto generazionale.

Ma altrettanto interessante è tutto quello che accade fuori dalle mura di casa.

“Hai qualche serie da consigliarmi?”, “Che cosa stai guardando?”. I consigli viaggiano di bocca in bocca e di messaggio in messaggio: chat di WhatsApp, chiacchiere durante la ricreazione, storie su Instagram. I ragazzi si scambiano suggerimenti creando una rete di riferimenti comuni. Parlare di una serie o di un personaggio diventa un modo per prendere posizione, per definire sé stessi. È un linguaggio condiviso, vivo e reale, che costruisce appartenenze, crea discussioni.
Lo schermo assume così il ruolo di mediatore di senso, capace non solo di intrattenere, ma anche di attivare domande, far emergere emozioni, facilitare spiegazioni, superando il silenzio o il pudore che spesso ostacolano le conversazioni dirette.

Lo schermo assume così il ruolo di mediatore di senso, capace non solo di intrattenere, ma anche di attivare domande, far emergere emozioni, facilitare spiegazioni, superando il silenzio o il pudore che spesso ostacolano le conversazioni dirette.

E qui sta un’opportunità che la scuola dovrebbe cogliere.
Se un contenuto riesce a coinvolgere le giovani generazioni, a generare partecipazione, allora deve interessare anche alla scuola. La prima parte del lavoro educativo, ovvero l’ingaggio degli studenti, è praticamente già fatta. Non serve forzare, né convincerli: lo sono già! Si tratta solo di partire da ciò che li appassiona, trasformando il loro mondo quotidiano in un’esperienza educativa condivisa.

Ma come si fa, praticamente?

Il primo passo è molto semplice: decidere di volerlo fare. E da lì, mettere in atto le azioni concrete che possono dare il via a un’esperienza efficace di co-viewing in classe.

1. Dedicare un tempo prestabilito e ufficiale

Non quando avanza tempo, non come diversivo che assomiglia più alla ricreazione che a una lezione. Serve un tempo didattico pensato. Un’ora a settimana, magari ogni quindici giorni, o uno spazio fisso all’interno di un progetto. L’importante è che lo schermo in classe non venga vissuto come “intrattenimento fuori programma”, ma come parte integrante del percorso educativo. Solo così potrà acquisire piena dignità formativa.

2. Scegliere che cosa proporre (e come)
Il contenuto può variare in base all’età degli studenti e agli obiettivi didattici. Le serie sono spesso il linguaggio più frequentato dai ragazzi, per questo possono essere un ottimo punto di partenza.

Ma proprio perché fanno già parte della loro quotidianità, la scuola può (e dovrebbe) andare anche oltre, proponendo contenuti che difficilmente sceglierebbero da soli: film d’autore, documentari, reportage, inchieste. Non per “alzare il livello”, ma per allargare l’orizzonte. È un’opportunità per mostrare altri modi di raccontare il mondo, stimolare domande, offrire strumenti per leggere la realtà in modo più critico. È qui che il retro-watching diventa una risorsa interessante. Rivedere fiction, spot o programmi di altri decenni permette di riflettere su come sono cambiati i messaggi, i ruoli sociali, gli sguardi sul mondo. Non è un esercizio nostalgico, ma un’occasione per confrontare epoche, riconoscere stereotipi, osservare l’evoluzione di alcuni modelli culturali. E spesso, ciò che all’inizio sembra distante, finisce per sorprendere e accendere domande. Basta guardarlo insieme, con uno sguardo aperto e condiviso.

In questa fase iniziale è utile raccogliere più opzioni, combinando due modalità:

  • un approccio top-down, in cui è l’insegnante a proporre contenuti in linea con il percorso didattico;
  • e uno bottom-up, in cui si invita la classe a portare idee e spunti legati ai propri interessi.

Alternare queste due logiche consente di valorizzare i gusti degli studenti senza perdere la direzione educativa. E offre già un’occasione per esercitare ascolto e dialogo.

3. Decidere insieme
Una volta raccolte le proposte, arriva il momento della scelta. Anche questo passaggio può diventare parte dell’esperienza educativa: decidere insieme significa confrontarsi, argomentare, riconoscere i gusti altrui. Si può votare alla lavagna, fare un sondaggio online, discutere brevemente ogni titolo e poi scegliere. L’importante è non dilungarsi troppo e mantenere la leggerezza del processo, senza competizioni.

Chi vuole può aggiungere una dose di gioco: estrazioni, sorteggi o gruppi a rotazione incaricati di selezionare il contenuto. Basta poco per trasformare la scelta in una pratica condivisa.

E poi, che cosa succede?

Guardare insieme non significa solo “premere play e aspettare la fine”. La visione può essere interrotta, commentata in tempo reale, oppure ripresa successivamente. C’è chi preferisce lasciare spazio al silenzio e poi parlarne dopo. Chi invece attiva un confronto a caldo. Tutto dipende dallo stile del docente, dalla classe, dal contenuto.

Anche il “dopo” può assumere forme molto diverse. Si può prevedere:

  • una semplice conversazione in cerchio;
  • una scrittura condivisa o individuale;
  • un’attività di gruppo;
  • una ricerca cooperativa di approfondimento;
  • un elaborato creativo (per esempio un reel, un trailer alternativo, una nuova scena, una scheda critica);
  • un debate (dibattito) o un gioco didattico cooperativo.

Oppure si può scegliere di non fare nulla subito: lasciare sedimentare, lasciare che la visione parli da sola.

La televisione in classe: un’opportunità da cogliere

Compiere i primi tre passi – ritagliare il tempo, scegliere cosa vedere, decidere insieme – rappresenta già un cambiamento significativo. Tutto il resto si costruisce a partire da lì: ciascun docente può adattarlo al proprio stile, integrarlo con i propri metodi e obiettivi, modellarlo sui bisogni della classe. Ed è spesso in questo processo che si aprono scenari didattici inaspettati.

In fondo è semplice: basta portare in classe quella scatola luminosa e accenderla. Perché a volte, per accendere davvero la mente, serve solo una buona storia e qualcuno con cui guardarla.

Maria Vittoria Alfieri

Esperta di Digital Education, lavora dal 1998 nell’editoria scolastica occupandosi di scuola, innovazione e tecnologia, progettando contenuti, strumenti e piattaforme per una didattica attuale e potenziata dal digitale. Ha contribuito e contribuisce a individuare modelli in grado di traghettare il mondo dell’education verso un modus operandi attuale e integrato in una quotidianità in continuo e veloce cambiamento. È ideatrice e direttrice editoriale della piattaforma didattica Brickslab e docente presso il Master Professione editoria cartacea e digitale dell’Università Cattolica di Milano. Affianca inoltre editori, musei, aziende ed enti che sviluppano progetti educativi e di edutainment, per ideare soluzioni innovative e valorizzare l’esperienza di apprendimento.

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