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23 Ottobre 2025
30 settembre 2025

L’evoluzione demografica in Italia e i possibili impatti su scuola, educazione e futuro

Come possiamo riaprire ai giovani il nostro Paese?

Intervista a Francesco Billari,
professore di demografia e rettore dell’Università Bocconi
Tempo di lettura: 10 minuti
Con Francesco Billari parliamo del cosiddetto “inverno demografico” dell'Italia di oggi, evidenziando il calo della natalità e l'aumento dell'aspettativa di vita, problemi in parte mitigati dal contributo dei residenti stranieri. Come questa situazione influenza il sistema educativo, il mercato del lavoro e il tessuto sociale? Quali sono le sfide che il Paese deve affrontare, e le opportunità da cogliere, perché il futuro sia sostenibile per le nuove generazioni?

Qual è la situazione demografica in Italia?

Inizierei con alcuni dati che secondo me sono semplici e significativi per raccontare l’Italia di oggi. Partiamo dal dato più positivo: la speranza di vita alla nascita, per i nati nel 2024, è di 83,4 anni, la più alta della storia italiana. Siamo un Paese molto longevo.
Il secondo record italiano è però la bassa natalità: nel 2024 il numero medio di figli per coppia è stato di 1,18, il numero più basso registrato dalle statistiche.

Dunque l’Italia, con la longevità della sua popolazione e con la sua bassa natalità è uno dei Paesi più invecchiati al mondo.

Sì, sopra di noi ci sono solo il Principato di Monaco e il Giappone. Un altro record che abbiamo è la quota dei residenti stranieri, che corrispondono oggi a cinque milioni o al 9,2%. Se a questi si aggiungono i quasi due milioni di naturalizzati, ossia persone che hanno chiesto e ottenuto la nazionalità, l’Italia ha oggi quasi sette milioni e mezzo di cittadini residenti che sono o erano stranieri.
Si tratta di persone che vanno a scuola, lavorano, pagano le tasse e contribuiscono al benessere della nostra società. Se sottraessimo questa quota dalla popolazione attuale, che è oggi meno di 59 milioni, torneremmo a circa 52 milioni, ossia all’Italia della metà degli anni Sessanta.
AI e scuola, intervista a Mario Rasetti

La scuola è (e sempre sarà) il punto da cui ripartire per costruire il futuro.

Questi numeri fotografano un po’ quello che sta succedendo: lunga vita, bassa natalità, quindi poco peso dei giovani rispetto agli anziani, e parecchi stranieri, alcuni dei quali sono nati qua. Una situazione complessa: quali sono secondo lei le cause principali?

Ci sono due tipi principali di cause. La prima è puramente demografica: due terzi circa del calo delle nascite sono dovuti alla riduzione dei potenziali genitori. Oggi ci sono pochi nati (un po’ più di 370.000, rispetto al mezzo milione del 1995), e di conseguenza pochi bambini nelle scuole, perché sono nati pochi potenziali genitori, conseguenza del calo delle nascite iniziato nel 1964. I nati nel 1964, oltre un milione, sono ancora oggi il gruppo più numeroso nella popolazione italiana, grazie alla longevità. Se non ci fosse stato il flusso migratorio (dei 370.000 nati oggi, circa 50.000 sono bambini nati da genitori stranieri), i potenziali genitori sarebbero ancora meno.
L’altro terzo del calo è invece dovuto al fatto che si fanno meno figli. Le ragioni sono, a mio avviso, un mancato adattamento delle politiche a ciò che vuol dire avere figli oggi.

La scuola italiana di oggi è stata costruita sulla demografia del passato, ovvero su un mondo che non esiste più.

Diventare genitori è una scelta irreversibile?

Sì, la più irreversibile che possiamo compiere nella nostra vita. Salvo per le rarissime decisioni, in Italia, di non riconoscere un figlio alla nascita da parte della madre, da un figlio non ci si separa.
In una famosa pubblicità un tempo si diceva che un diamante era per sempre, perché tipicamente il fidanzato lo regalava alla fidanzata, si sposavano e stavano insieme per la vita. Non è andata proprio così. La storia ci dice che il vero diamante che dura per sempre oggi è un figlio o una figlia.
Quando ho iniziato a fare ricerca sembrava che l’Italia fosse immune alla possibilità che i figli nascessero al di fuori dal matrimonio. Si diceva che nascevano pochi figli perché ci si sposava tardi. Un altro record del 2024 è che il 42% dei nati sono venuti al mondo al di fuori del matrimonio. Questi dati mostrano dunque che la centralità del legame è oggi soprattutto tra i genitori e i figli, più che tra i genitori tra loro. È un fenomeno che si osserva anche negli altri Paesi.

Quando si decide di diventare genitori?

Quando si ha una prospettiva di reddito di lungo periodo per la madre e il padre. Per questo servono un ambiente orientato al futuro e politiche stabili, che non possono dipendere dalla legge di bilancio dell’anno in corso o se al potere c’è la destra o la sinistra. Nei Paesi europei a maggiore natalità, come la Francia, i Paesi scandinavi e oggi anche la Germania, le politiche per la famiglia sono riconosciute come qualcosa che non si mette in discussione a ogni cambio di governo o a ogni approvazione di finanziaria.
A volte si dice che le cause sono culturali, che i giovani sarebbero individualisti. Può essere, ma in tutto il mondo i giovani sono individualisti. La biologia ci insegna che in tutte le specie ci si riproduce quando le condizioni sono più favorevoli.
Un tempo si cercava di non avere figli. Oggi, che si hanno a disposizione efficaci e diffusi metodi contraccettivi, la decisione da prendere è più proattiva: tendenzialmente si fanno figli quando ce li si può permettere.
Gli stranieri inizialmente, quando arrivano, fanno più figli perché la situazione è per loro molto migliore rispetto al Paese d’origine, ma nel tempo si adattano e anche la loro natalità si adegua alla nostra.

In alcune scuole superiori del Nord Italia ci si attende una diminuzione di circa il 40% della popolazione studentesca in appena dieci anni: un dato considerato abbastanza certo, perché si tratta di bambini che non sono nati. Quali sfide o opportunità comporta una popolazione scolastica ridotta?

Una caratteristica della demografia è che il numero di nati di ogni determinato anno non può cambiare. Dunque le classi non potranno tendenzialmente aumentare, a meno che arrivino bambini o ragazzi non nati in Italia, o che ci siano movimenti migratori interni all’Italia. Se c’è una zona da cui i genitori partono con i propri bambini, da quella zona vanno via i potenziali futuri studenti. Nelle molte zone interne al Paese che si stanno spopolando, le scuole chiudono quando le famiglie migrano verso città più grandi.
Una scuola a rischio di chiusura è un punto di non ritorno, perché difficilmente potrà riaprire. Lo racconta bene il film di Antonio Albanese, Un mondo a parte, ambientato in un paesino abruzzese. La scuola è il futuro di una comunità. Se chiude, anche quel futuro si chiude, insieme all’ecosistema che le ruota attorno, fatto di bambini, genitori, insegnanti, dirigenti, tecnici, bidelli, cartolai, librai, pediatri e così via. L’immigrazione interna o internazionale è quindi l’unica possibile soluzione, se non per invertire, per rallentare queste tendenze.
I dati elaborati dai demografi possono dunque aiutare a organizzare i fabbisogni del sistema scolastico.

Come sta affrontando questi cambiamenti il sistema educativo italiano? Sarebbero necessarie delle riforme?

La scuola italiana di oggi è stata costruita sulla demografia del passato, ovvero su un mondo che non esiste più. Era una demografia con tanti bambini, quindi era stata pensata per fare selezione. Era una demografia in cui non c’erano stranieri. Certo, c’era qualcuno che cresceva parlando il dialetto e che tipicamente veniva lasciato indietro senza troppi scrupoli.
Un dato significativo da cui partire per comprendere i problemi è il punto finale del sistema scolastico, ossia la quota dei laureati. Tra i Paesi dell’OCSE l’Italia è quella che, con la Romania, ne ha il minor numero: meno del 30% dei giovani raggiunge questo traguardo. Altri Paesi a bassa natalità, come la Corea del Sud e il Giappone, sono sul 60-70%. Ora, il 30% di laureati potrebbe anche bastare se la popolazione giovanile fosse abbondante. Essendo invece i bambini e i ragazzi così pochi, i laureati oggi sono davvero una minoranza insufficiente per un Paese moderno.
Dovremmo pensare a una scuola che, come in altri Paesi a bassa natalità, cerchi di portare avanti tutti almeno fino a 18 anni. Servirebbe forse una scuola superiore con un approccio unitario, magari con qualche materia a scelta, fino alla maggiore età. (Un problema molto italiano è la miriade di indirizzi delle scuole superiori: se un ragazzo deve per qualche motivo cambiare scuola nel corso delle superiori, per esempio per il trasferimento dei genitori, con grande probabilità non troverà lo stesso indirizzo nella scuola in cui andrà.)
Dovremmo investire di più pro capite su questi pochi ragazzi. Come appunto in Corea del Sud, dove hanno pochissimi nati, ma studiano tutti.
Noi invece abbiamo ancora un sistema basato sulla riforma Gentile. Nel 1923, quando l’aspettativa di vita era di circa 50 anni, alla fine delle elementari si stabiliva se un bambino avrebbe continuato a studiare o avrebbe fatto il cosiddetto “avviamento” alla professione. Oggi questa scelta avviene alla fine delle scuole medie, nonostante la Costituzione dica che la scuola dell’obbligo debba essere di almeno otto anni: quell’“almeno” lo abbiamo dimenticato.
Tra coloro che escono da un liceo, tre diplomati su quattro si iscrivono all’università, mentre dalle scuole professionali solo uno su quattro fa questa scelta. Per somigliare di più a un Paese come la Corea del Sud avremmo bisogno che tutti i giovani frequentassero scuole che offrono una preparazione liceale, in grado di farli arrivare all’università.
Gli studenti stranieri sono peraltro concentrati nelle zone più ricche del Paese, nel Centro-Nord, dove i loro genitori trovano lavoro. Tendono ad andare in scuole, appunto, professionali, da cui difficilmente continueranno gli studi. Se questa popolazione studentesca non è incoraggiata, considerata, istruita di più, resterà poco preparata. Che cosa potranno fare? Li abbiamo formati poco, non abbiamo dato loro la cittadinanza… Non saranno molto contenti delle loro prospettive.
AI e scuola, intervista a Mario Rasetti

Se non ci occupiamo di più dei giovani, in tanti andranno all’estero?

Sì, questo sta già succedendo, e non solo tra gli italiani più benestanti. Nei test Invalsi, gli studenti stranieri pagano pegno, per così dire, nelle materie come l’italiano, in cui mostrano un ritardo. È solo responsabilità delle famiglie? Se un ragazzo alla fine delle medie ancora non sa l’italiano, non sarà anche un po’ responsabilità della scuola? In matematica il ritardo è minore e in inglese vanno molto meglio dei compagni italiani. Verosimilmente sono bilingue, spesso portati per queste discipline, che li possono poi condurre facilmente a emigrare se non investiamo di più su di loro.

Sembra che stiamo sprecando tanta gioventù.

Per come è pensata ancora oggi la nostra scuola, uno studente deve essere molto sveglio o avere dietro una famiglia che lo sostiene. Nello sport, se c’è del talento, i ragazzi vengono in genere reclutati dalle società sportive alla fine delle scuole medie. Lo stesso non vale invece per tante ragazze e ragazzi a cui, alla fine di quel ciclo scolastico, viene data l’indicazione per una scuola professionale: una strada quasi sempre chiusa a una prospettiva universitaria. Anche i pochi stranieri che osano affrontare un liceo, spesso non arrivano in fondo perché alla prima difficoltà non hanno una famiglia in grado di aiutarli e pagare qualche ripetizione.

Ci sono esempi di Paesi che si sono ripresi da situazioni simili?

Sì, la Germania. Fino a poco tempo fa, c’era una bassissima natalità e scuole aperte solo al mattino. Le donne istruite o non facevano figli e lavoravano, oppure dovevano abbandonare il lavoro per seguire la prole. Un governo di coalizione ha implementato misure scandinave: hanno allungato l’orario scolastico, ridotto le vacanze estive, in alcuni Länder hanno accorciato di un anno la durata delle superiori. In tutto il Paese hanno messo l’asilo nido di diritto per tutti i bambini da un anno in su, con l’idea che l’asilo nido faccia bene non solo alle mamme, che così possono tornare a lavorare, ma anche ai bambini, perché è un potente mezzo per ridurre le diseguaglianze, dato che i piccoli stranieri imparano fin da subito la lingua.
In Germania, che era in una situazione simile alla nostra, oggi sono arrivati a 1,5 figli per coppia: meno della Francia, ma molto meglio dell’Italia. Non è un caso che l’area d’Italia che si avvicina di più a questi tassi è Bolzano, una città che tendenzialmente imita le politiche tedesche.
Ovviamente ci vogliono molto tempo e molta pazienza. I politici che implementano buone strategie demografiche non vedranno l’esito delle loro azioni in una legislatura, anche perché i bambini hanno il “vizio” di metterci nove mesi per venire al mondo, e prima hanno bisogno di genitori che decidano di concepirli. Non bastano misure estemporanee, come i mille euro di un bonus alla nascita un anno sì e tre no, per far prendere quelle cruciali decisioni.
Qualcosa di buono lo abbiamo fatto: l’assegno unico va in una direzione positiva, mentre sugli asili nido siamo ancora indietro. Occorrono anche parecchie risorse. La Germania, quando ha intrapreso questa strada, aveva un debito pubblico che era la metà di quello italiano. E, nel nostro Paese, avere investito più sugli anziani che sui giovani ha fatto anche sì che il debito pubblico non sia diminuito.

Come cambieranno le prospettive delle nuove generazioni in un Paese con sempre meno giovani e sempre più anziani? Quali rischi e opportunità ci sono?

Un Paese con pochi giovani, di cui pochi istruiti, è una nazione dove nascono poche aziende nuove. Dobbiamo chiaramente migliorare sulle opportunità offerte all’imprenditorialità giovanile. Nelle aziende esistenti, prevalentemente medio-piccole, prevalgono meccanismi di carriera basati sull’anzianità più che sul merito. È un po’ paradossale che sia questa l’unica diseguaglianza accettata da tutti in Italia, anche dai sindacati: chi è stato più a lungo in un’azienda è giusto che guadagni di più, al di là della produttività.
Pur essendo la disoccupazione oggi bassissima, la quota di persone che lavorano è la più bassa d’Europa, perché le aziende sono relativamente poche e non aumentano l’occupazione. C’è ancora l’idea che “piccolo è bello”. Nel frattempo gli altri Paesi crescono di più e i nostri giovani votano con “i piedi”, andando altrove, dove le condizioni sono più accoglienti.

Dovremmo pensare a una scuola che, come in altri Paesi a bassa natalità, cerchi di portare avanti tutti almeno fino a 18 anni.

In conclusione, qual è la ricetta di una scuola adatta alla demografia del nostro Paese?

Dovremmo copiare i Paesi nordici dove, per ridurre le disuguaglianze, le scuole hanno orari lunghi, i compiti si fanno in classe e non a casa, dove conta la famiglia, le vacanze estive sono più brevi e l’istruzione è valorizzata ma anche responsabilizzata sugli esiti.
Il cambiamento demografico oggi ci impone di ripensare il futuro della scuola, per cui si dovrebbero fare riforme coraggiose, forse costituzionali, oltre gli schieramenti e le divisioni. Anche perché gli altri Paesi stanno andando avanti, e non è più possibile dire che l’Italia è un Paese manifatturiero che non ha bisogno di laureati.
Lisa Vozza

Francesco Billari

è professore di Demografia e dal novembre 2022 rettore dell’Università Bocconi di Milano, dopo aver ricoperto il ruolo di Dean for Faculty. È stato docente presso l’Università di Oxford e l’Istituto Max Planck per la ricerca demografica.
I suoi principali interessi sono la fertilità e il cambiamento familiare, il passaggio all’età adulta, l’analisi del ciclo di vita, la previsione della popolazione, la digitalizzazione e la demografia e le indagini comparative. I suoi lavori sono stati pubblicati su importanti riviste scientifiche di demografia, economia, epidemiologia e sanità pubblica, geografia, sociologia e statistica.
Con i suoi cinque figli ha sfidato le tendenze demografiche del Paese.

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