Nel suo libro Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini parla di come cambia la scuola quando si parte dal punto di vista dello studente. Ci vuole spiegare in che senso?
La scuola che mi hanno insegnato i bambini è, innanzitutto, una scuola della possibilità. Se si è in grado di abbassarsi (o alzarsi) all’altezza dei più piccoli, mettendosi vicino a loro, si scopre che molte cose che si pensavano impossibili, in realtà, non lo sono. Il nostro tempo è dominato dall’ansia e la scuola non ne è immune: insegnanti ed educatori si sentono addosso gli occhi delle famiglie, delle istituzioni, muovendosi tra infiniti vincoli burocratici. Spesso questo li paralizza, scoraggiandoli dallo sperimentare, dal ricercare nuove vie.
Nella mia esperienza di insegnante, mi sono reso conto che se invece ci si affida allo sguardo dei bambini, molte di queste barriere cadono. Con loro si può affrontare qualsiasi domanda, visitare luoghi reali e immaginari impensati, abbandonando le strade lastricate di certezze per costruire nuovi percorsi di apprendimento. Solo così la scuola diventa un luogo vitale che ogni giorno può sorprendere e divertire, un luogo in cui i bambini desiderano tornare.
Come possono gli insegnanti superare questa paralisi, andare oltre la burocrazia e ritrovare il senso, restituendo alla scuola una dimensione più vitale?
Occorre ritrovare un approccio pedagogico, perché la pedagogia è la leva che abbiamo a disposizione per scalzare l’ingessatura della burocrazia vissuta come sterile adempimento. L’insegnante che ha una visione animata da teorie pedagogiche, da una ricerca personale, riesce ad abitare lo spazio istituzionale e burocratico riempiendolo di senso.
Quando questo manca, si finisce per muoversi meccanicamente dentro strade pre-tracciate dalla burocrazia, ponendo domande fasulle di cui già si conosce la risposta, e uccidendo la fantasia e il desiderio di apprendere.
Quando ho iniziato a insegnare alla scuola primaria, una delle cose che mi sentivo ripetere più spesso era “non si può fare”. Continuavo a incontrare barriere che, tante volte, erano immaginarie. Infatti, molte delle innovazioni didattiche che sembravano impraticabili, poi sono riuscito a perseguirle. Spesso questo senso di paralisi viene dalla mancanza di ricerca e conoscenza delle possibilità.
La pedagogia è la leva che abbiamo a disposizione per scalzare l’ingessatura della burocrazia vissuta come sterile adempimento.
Nella sua esperienza di docente la ricerca è stata molto importante, tanto che ha deciso di intraprendere un dottorato e ora insegna all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Come interagiscono nella sua professione la dimensione dello studio e quella dell’insegnamento?
Credo che non si possa fare l’insegnante se non si è personalmente in ricerca.
Il mio è uno studio che parte dall’aula e si concretizza dentro la scuola. In campo pedagogico, la pratica quotidiana della didattica e la ricerca accademica si devono contaminare, altrimenti lo scollamento tra questi due mondi rischia di scadere nell’astrazione.
Nella mia professione di insegnante, lo studio mi ha aiutato a gettare sguardi nuovi, a porre domande diverse, ad aprire vie in un mondo, quello della scuola, in cui molto viene dato per scontato.
Dopo il dottorato in Educazione nella società contemporanea sono tornato a scuola perché è proprio lì che si gioca la mia ricerca e, d’altronde, vedo che l’efficacia dei corsi che tengo in università si fonda proprio sulla commistione tra teoria e pratica.
Anche i maestri che studio e che mi hanno ispirato (come Maria Montessori o Gianni Rodari) hanno abitato la scuola a partire da diversi sguardi e professioni: c’è chi era medico, chi scrittore, e anche attraverso questa loro dimensione hanno provato a dare un contributo alla pedagogia.
Da quando sono maestro di scuola primaria, ho sempre tenuto un giorno libero per fare altro e allargare lo sguardo: per formare altri docenti, fare ricerca e coltivare i rapporti con l’università. Faccio parte del Movimento di Cooperazione Educativa e per anni ho coordinato il Gruppo Nazionale sulla Valutazione, anche grazie alle ricerche e alle pratiche didattiche che mi sono valse l’etichetta del “maestro che non mette i voti”.

Esperimento Montessoriano
Parliamo proprio del suo approccio alla valutazione: come è cominciata la sua sperimentazione a riguardo e a che conclusioni è arrivato?
Ho iniziato questo percorso nel 2013, chiedendo, come maestro di scuola primaria, di sperimentare sul tema della didattica e della valutazione in nome di una norma presente nel DPR 275 che lo permetteva. Partivo dall’idea che non si potesse, e non fosse giusto, classificare i bambini. Il voto classico istituisce una graduatoria, indicando al bambino a che livello si colloca rispetto agli altri, e si rivela invece del tutto inadeguato a descrivere un percorso di apprendimento. Il fatto di prendere 6 piuttosto che 9 indica allo studente e alla sua famiglia soltanto se il livello di apprendimento è maggiore o minore rispetto a quello di altri, ma non offre indicazioni utili sul percorso, su ciò che il bambino sa o non sa fare, su quanto può ancora apprendere. Così ho cercato modalità meno standardizzanti e più attente alle differenze, partendo per esempio dall’idea di usare i colori del semaforo per rappresentare, insieme ai bambini, il grado di comprensione e apprendimento. Abbiamo ragionato insieme su cosa significasse il verde piuttosto che il rosso, li ho coinvolti nel processo di valutazione mettendomi al loro fianco e dando indicazioni che potessero sostenere concretamente l’apprendimento: invece di stilare una graduatoria, meglio invitare tutti a riflettere. All’inizio mancavano normative in questo senso, nel 2020 è arrivata l’Ordinanza 172, che ha stabilito la possibilità della valutazione descrittiva per la scuola primaria, di fatto dando via libera alle pratiche che avevo cominciato a mettere in atto.
L’ordinanza del 2025 torna a un giudizio più sintetico, ma ormai con i miei studenti il nuovo metodo è avviato. Così, a volte, affido a tutti i bambini di una classe lo stesso livello (ottimo, per esempio) e poi dettaglio con un feedback formativo e una valutazione approfondita che offra elementi utili per capire. Perché altrimenti allievi e famiglie si fermano al voto, che sia “ottimo”, “buono” o “insufficiente”, e non si chiedono ciò che conta davvero.
Come hanno reagito le famiglie a questa innovazione?
Ho investito molto tempo per incontrarli e spiegare loro che poteva esserci un altro modo per valutare i bambini. Ho illustrato il metodo del semaforo e ho proposto loro di usarlo con i propri figli e di confrontarci lungo il percorso. Ho avviato una collaborazione, perché quando si vuole aiutare qualcuno a parlare una lingua nuova occorre farla praticare il più possibile. In gran parte ha funzionato, le famiglie si sono anche spese pubblicamente a sostegno di questo nuovo metodo.
Poi ci sono genitori che protestano, a volte perché sono interessati a inserire il proprio figlio in una classifica, un meccanismo di cui il nostro mondo è pervaso, ma io mi sottraggo a questa pretesa. A me non interessa fare graduatorie, ma dare elementi utili agli studenti e alle famiglie per capire davvero cosa un bambino sa o non sa fare, e come può migliorarsi.
E i docenti? Ha rilevato interesse per questo nuovo metodo di valutazione tra i colleghi?
All’inizio pensavo non fosse particolarmente utile incentivare pratiche innovative di valutazione se non all’interno di un cambiamento complessivo della didattica, ma ultimamente ho notato come cambiare il modo di valutare possa scardinare anche pratiche di insegnamento logore. Mettendo in discussione il nervo sensibile del “voto” si sovvertono abitudini consolidate, con un effetto a cascata. La necessità di dare feedback formativi, al posto dei vecchi giudizi, costringe infatti a pianificare diversamente tutto il percorso di apprendimento e può essere un grande incentivo a rinnovare la didattica. Una valutazione che miri a formare e non a classificare diventa allora il perno per realizzare una scuola a misura di bambino, per rivitalizzare pratiche arrugginite ripartendo dal senso e dall’approccio pedagogico.
Davide Tamagnini
Davide Tamagnini nasce nel 1977 e da allora rinasce molte altre volte. Prima di arrivare in aula come maestro dei bambini è stato chimico, animatore sociale, sociologo e docente nei corsi regionali di formazione professionale. In quest’ultimo contesto nasce in lui il desiderio di approfondire i temi della pedagogia per trovare un modo di rendere la scuola un luogo veramente inclusivo e formativo. Specializzato presso l’Opera Nazionale Montessori, è attivo sia nel Movimento di Cooperazione Educativa, sia come formatore esperto di didattica e di valutazione. Ha conseguito il dottorato in Educazione nella società contemporanea presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca ed è professore a contratto presso UNIMIB nel corso di Didattica della lettura e della scrittura. Collabora con diverse riviste pedagogiche e ha pubblicato alcuni saggi in volumi collettanei, oltre a tre testi sulla sua esperienza da insegnante: Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini (Edizioni La Meridiana, 2016); Continuerò a sognarvi grandi. Storia di una rivoluzione tra i banchi di scuola (Longanesi, 2019); Essere insegnanti. Pratiche di didattica attiva (Carocci, 2023).