Parola agli insegnanti

Claudia Boffa: ritmi morbidi

Tempo di lettura stimato: 5 minuti
8 Luglio 2025

8 Luglio 2025

Dove insegna? Quali sono le caratteristiche della scuola in cui lavora?

Da quest’anno insegno nella scuola dell’infanzia del mio paese, Santa Maria a Monte, in provincia di Pisa. È una realtà piccolina, di campagna, ci sono soltanto due sezioni eterogenee, ossia dove, invece che tre classi divise per età, ci sono in un’unica classe bambini che vanno dai tre ai cinque anni, un contesto molto diverso da quello della mia esperienza precedente.
Ho iniziato a insegnare a Montelupo Fiorentino in una scuola molto grande, con nove sezioni, 25-26 bambini su sezioni omogenee. Eravamo 20-25 insegnanti e dovevamo confrontarci continuamente su come procedere. Adesso siamo quattro insegnanti in tutto, con 23 bambini, e questo ci permette di lavorare molto meglio.

Quali sono i pro e i contro di queste due modalità di composizione delle sezioni?

Nella composizione omogenea l’organizzazione didattica è più facile, il lavoro è più strutturato, le attività sono più semplici da pianificare e condurre, in quanto sono mirate per età specifiche. Anche la valutazione è più semplice. Nell’eterogenea, invece, la programmazione dev’essere molto più flessibile, perché deve tenere conto di obiettivi diversi. Di contro, gli stimoli sono maggiori, e la responsabilizzazione dei grandi verso i piccoli fa bene a tutti. Anche l’inserimento dei nuovi arrivati è più facile, perché i treenni tendono a seguire i grandi per imitazione.
Nella scuola dove sono ora, circa due volte a settimana facciamo dei laboratori a sezioni aperte dove gli insegnanti si dividono il gruppo classe con i colleghi dell’altra sezione, un insegnante prende tutti quelli di cinque anni per fare attività più mirate per loro e gli altri tengono i tre-quattrenni e lavorano su aspetti diversi.
Se all’inizio avevo dei dubbi sulla sezione eterogenea, ora, dopo un anno, la trovo molto appagante perché valorizza la relazione tra i bambini.

Com’è arrivata all’insegnamento? Che tipo di formazione ha ricevuto?

Ho 45 anni, mi sono diplomata nel 1998 con il vecchio istituto magistrale abilitante, ho preso una laurea in storia e, dopo una serie di esperienze diverse, ho iniziato a insegnare nel 2011. Il mio precariato è stato alla scuola primaria, anche come insegnante di sostegno, poi, nel 2018, ho superato il concorso ordinario.

Cosa pensa della formazione continua? Offre gli strumenti adatti per seguire e accompagnare meglio i bambini?

Ci tengo a essere aggiornata e faccio formazione sia a livello personale sia a livello di istituto, cercando sempre corsi che abbiano una ricaduta concreta sul mio operato con i bambini. Ho fatto un corso come atelierista, e uno sull’outdoor education, ovvero l’asilo nel bosco, l’asilo del mare, un approccio incentrato sul rapporto natura, bambino, educazione all’aperto, che oggi è molto rivalorizzata.
Poi ci sono le formazioni impartite a livello di istituto, quelle cosiddette obbligatorie, le famose 25 ore che andrebbero fatte ogni anno. Quest’anno abbiamo seguito un corso sullo storytelling digitale, interessante ma poco applicabile. I bambini avrebbero dovuto utilizzare il tablet e attraverso delle app inventare personaggi e storie. Bella cosa, ma dare in mano un tablet a bambini di cinque anni… diventa un delirio. Questo per dire che non sempre le formazioni che propongono a livello di istituto sono mirate per l’ordine di scuola in cui vengono proposte.

Quali sono le trasformazioni principali a cui ha assistito nel corso degli anni?

Ultimamente, notiamo un numero sempre crescente di bambini con aspetti di iperattività, di disturbi dello spettro autistico, di neurodivergenze. Oppure che mostrano difficoltà a livello di relazione: bambini che si isolano e non vogliono giocare con i compagni, bambini che non riescono a gestire la rabbia. Altri che hanno problemi di linguaggio, non parlano, anche in età dove ci si aspetterebbe un linguaggio fluido.

Come affronta i casi di bambini con problemi comportamentali?

La scuola primaria da cui provengo è stata un utile osservatorio. Mi ha aiutato a capire che alcuni passaggi della scuola dell’infanzia sono fondamentali per acquisire le capacità che servono alle elementari. Banalmente, tagliare un pezzetto di carta, incollare un foglio su un altro foglio, gestire le proprie cose sembra scontato, ma per un bambino della scuola dell’infanzia rappresenta un grande obiettivo.
Quando notiamo delle difficoltà informiamo i genitori. Partiamo sempre col dire che noi non facciamo diagnosi, ma osserviamo il loro bambino, e quando riferiamo le nostre impressioni, le nostre segnalazioni, è perché ci sta a cuore il suo benessere. In genere questo confronto è ben accetto, e tante volte, quando abbiamo richiamato i genitori perché avevamo dei dubbi, abbiamo poi avuto ragione.

Quali sono gli aspetti più positivi del suo lavoro?

A me piace molto lavorare con i bambini piccoli, perché spesso posso mostrare loro qualcosa che vedono per la prima volta: è il cosiddetto imprinting. Credo sia fondamentale insegnare loro, già da piccolini, la collaborazione, il rispetto, l’educazione. In questo senso, sento di avere una grande responsabilità accompagnandoli in questa fase della loro vita.

Quali le caratteristiche del suo essere insegnante?

La creatività, perché si lavora con le mani, si colora, si canta, si apprende col corpo, divertendosi – che poi è la base della scuola dell’infanzia.
Instaurare una buona relazione fin da subito con i genitori è sempre fondamentale.
Poi tra colleghi sono indispensabili la collaborazione e la consapevolezza che ognuno porta il suo contributo, ognuno ha le sue specificità.

Qualche difficoltà?

L’anno scorso, quando insegnavo in un paese limitrofo, mi sono ritrovata ad avere una sezione con il 90% di bambini stranieri non italofoni. Tante realtà diverse, tante culture familiari. È stata un’esperienza difficile, ma anche arricchente. Abbiamo fatto laboratori sulla lingua madre, dedicando due giornate all’ingresso delle mamme non italiane all’interno della scuola, e ciascuna ha portato e spiegato un canto, una tradizione, un abito del suo paese d’origine. Ci sono state mamme che hanno fatto l’hennè ai bambini e alle maestre, altre che hanno fatto le treccine, è stato un momento di grande apertura interculturale e di inclusività.

A me piace molto lavorare con i bambini piccoli, perché spesso posso mostrare loro qualcosa che vedono per la prima volta: è il cosiddetto imprinting. Credo sia fondamentale insegnare loro, già da piccolini, la collaborazione, il rispetto, l’educazione.

C’è qualcosa di nuovo che introdurrebbe nella scuola dell’infanzia?

Spesso ci facciamo prendere dal fare le cose, perché a fine anno dobbiamo dimostrare che abbiamo lavorato. A volte invece bisognerebbe ritornare alla lentezza.
A volte mi sembra di avere tutta la giornata davanti, invece siamo incanalati in orari e cose da portare a termine. Si inizia la mattina, con il circle time, ci si ritrova tutti insieme, ci si chiede come si sta e si compila il calendario del giorno. Facciamo l’attività da quell’ora a quell’ora, perché poi c’è da andare in bagno, andare a mensa, fare colazione, la giornata è parecchio scandita.
Quindi sta all’insegnante impostare un lavoro più calmo rispetto all’attività frenetica dettata dal “fare”: rispettare ancora di più i tempi dei bambini, stare fuori, all’aperto, dedicare spazio all’ascolto, a un’educazione con ritmi più morbidi, perché oggi viviamo in una società di stimoli continui. Visto che forse a casa non si riesce per tanti motivi, la scuola dovrebbe valorizzare il saper aspettare, il saper condividere, il saper oziare, a volte perfino il non fare niente.

Secondo lei un insegnante di scuola dell’infanzia può fare la differenza per i bambini che segue?

Io lo spero tanto, perché a volte si dice “è piccolino, è inutile”, ma io non lo credo. Ritengo che seminare nei piccoli una buona idea, seminare ogni giorno un buon valore, possa davvero fare la differenza.
In un mondo caratterizzato da una competizione continua, da una forte aggressività, io cerco di andare esattamente nel senso opposto. Non perché sia contraria alla competizione in assoluto, ma perché spesso viene intesa e gestita come prevaricazione.
di Valeria Molone

Articoli suggeriti