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Parola agli insegnanti

Sara Maccagnan – un modo di guardare

Tempo di lettura stimato: 5 minuti
13 Ottobre 2025

13 Ottobre 2025

Dove insegna? Quali sono le caratteristiche della scuola in cui lavora?

Insegno arte al Liceo Dal Piaz di Feltre, in provincia di Udine. È un istituto superiore con liceo scientifico, classico, artistico e scienze applicate; è una scuola che ha circa cinquecento studenti e attinge a un bacino significativo.

Da quanto tempo insegna? 

Insegno dal 2018 al Dal Piaz, ma prima ho lavorato anche nella secondaria di I grado, in una piccola scuola paritaria; è qui che ho acquisito consapevolezza professionale sull’educazione all’arte e ho guadagnato entusiasmo. Al Dal Piaz ho dovuto cambiare impostazione per via della dimensione e della tipologia di scuola, è stato un passaggio utile per crescere e ragionare sul mio modo di operare in classe e fuori.

A quali trasformazioni principali ha assistito/partecipato nel corso degli anni?

La riforma Gelmini del 2010 ha generato uno scossone: ricordo che ci siamo seduti per rivedere non solo ordinamento e indirizzi, ma anche approccio e forma mentale. Non so bene dire se la riforma sia stata positiva o no, ma abbiamo fatto i conti con il cambiamento.

I ragazzi sono cambiati? Se sì, come?

Ho macinato quasi vent’anni di scuola e sono sempre stata fortunata: ho lavorato con ragazzi empatici e appassionati. Hanno delle fragilità, ma qui ci troviamo in un ambiente sereno.
In generale mi sento cambiata io: sono meno sicura rispetto alle attività che propongo! All’inizio mi sentivo più coraggiosa e forse ero più incosciente – ora il mio lavoro è più strutturato e pensato: mi chiedo sempre se il modo, l’argomento e il tema possono essere davvero utili ai miei studenti.
I ragazzi non mi sembrano tanto diversi, da un punto di vista esistenziale c’è sempre e solo l’oggi, non questa volta o domani. Forse a mutare è la loro analisi della realtà, che è frettolosa e frammentaria, ma la colpa non è loro: è un andamento generale, che dipende dal contesto in cui vivono. Bisogna cercare di proporre un’alternativa più ragionata se crediamo che serva per andare in una direzione nuova.
Se gli si dà il via, chiedono, sono curiosi, entusiasti, a volte più precisi di me: quando facciamo attività a lungo termine faticano un po’ perché vorrebbero un risultato immediato, ma poi mi aiutano a tenere il fuoco.

Mi piace molto, quando facciamo scuola tradizionale, dedicare tempo all’autovalutazione, perché non trovo giusto che i ragazzi subiscano un numero senza capire da dove arriva.

Che formazione ha ricevuto per fare questo lavoro?

Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, un percorso bellissimo, importante. Ho conosciuto insegnanti significativi dai quali ho imparato tantissimo; e quello che ho imparato continuo a portarlo in classe, in termini non solo di contenuto singolo ma di forma mentis, di approccio all’arte e di pensiero sull’arte. A Bologna ho sentito qualcosa che si apriva e non sono mai più tornata indietro. Vorrei fare lo stesso con i miei ragazzi.

Questo processo è avvenuto perché ho incontrato docenti con stili diversi, accomunati da una visione comune che era l’andare oltre ciò che si studia, si legge e si vede. Ho quindi frequentato la Cobaslid, cioè la SIS per le discipline artistiche, all’Accademia di Venezia (già insegnavo qui sul territorio), mentre la parte pedagogica era a Ca’ Foscari. Percorso utile, soprattutto perché c’era un ottimo confronto con i colleghi: avevamo già tutti un piede nella scuola.

Mi ha aiutato molto anche il lavoro in museo come guida e come accompagnatore didattico: grazie a questa esperienza ho toccato con mano il contatto con l’opera e anche la sfida al breve tempo a disposizione, dato che la classe si ferma un paio d’ore e deve tornare a casa con un’esperienza piena, con il superamento del pregiudizio sul museo e sull’arte.

Poi, chi lavora a scuola ha la fortuna di avere una formazione continua, sia quella istituzionale sia quella che avviene in modo autonomo e attraverso canali non convenzionali: tutti gli stimoli, prima o poi, finiscono in classe… nomi, idee, suggestioni ricompaiono e sono utili. Trovo molto significative le formazioni non legate alla disciplina di insegnamento, che arricchiscono moltissimo il lavoro in aula. D’altra parte la contaminazione non è un’invenzione di oggi, basta pensare a Leonardo, c’è sempre stata e ha portato a grandi cose.

Di quali altri strumenti sente di aver bisogno per seguire ed educare i suoi studenti in modo più pieno ed efficace?

Ultimamente mi dedico molto agli aspetti relazionali – che, oltre alla padronanza sul contenuto, sono cruciali nel processo di insegnamento-apprendimento. Ho bisogno dunque di un lavoro continuo di formazione e comprensione del contesto sociale ed educativo: nella quotidianità – ho due ore con tante classi, con ragazzi dai 14 ai 19 – è importante per me tenere a mente gli aspetti pedagogici per dare il meglio!

Quali sono gli ostacoli maggiori a far bene il suo lavoro?

La parte burocratica: la svolgo, chiedo anche aiuto, ma non sono brava e quindi la vivo male! Trovo inoltre che tolga tempo ed energie ad aspetti più significativi come la formazione, l’analisi, il supporto agli studenti.

Che cosa introdurrebbe di nuovo nella scuola? 

Nella scuola ci sono già tanti strumenti, mi piacerebbe saper usare al meglio quelli, senza aggiungerne di nuovi, con annessi nuovi protocolli che spesso generano panico, confusione, preoccupazione.
Venendo alla mia disciplina, penso che le indicazioni nazionali sui contenuti dovrebbero lasciarci più liberi e autonomi nella scelta; preferirei avere a che fare con meno vincoli, meno rigidità. Come posso trattare tutta la storia dell’arte? Sarebbe meglio selezionare dei periodi e degli artisti per sviscerarne la poetica in modo più approfondito, piuttosto che fare la carrellata di cento opere e cento artisti in modo superficiale.

Quale è il suo approccio all’insegnamento?

Sposo l’approccio euristico all’immagine di Italo Calvino; in una lettera del 1960 dice “…l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo”. Ho copiato questa frase sulla mia agenda così non perdo la direzione: vorrei che i ragazzi avessero questo tipo di esperienza, imparassero a cambiare lo sguardo. Penso sia importante usare i contenuti scolastici come mezzo per attuare una trasformazione. Bisogna insegnare un metodo per formare persone aperte, curiose, appassionate; mi discosto dall’idea di Howard Gardner che la scuola debba formare scienziati in miniatura: è un’idea che presuppone che tutto vada secondo un protocollo, ma nella nostra vita questo non è possibile… perciò serve un metodo.
Sono comunque una fan della lezione frontale: i ragazzi devono imparare ad ascoltare, a prendere appunti e ad avere un tempo lento. Inoltre mi piace molto, quando facciamo scuola tradizionale, dedicare tempo all’autovalutazione, perché non trovo giusto che i ragazzi subiscano un numero senza capire da dove arriva, mi piace che possano rielaborare quello che hanno fatto in termini consapevoli. Nessuno fa lo spiritoso, anzi, è uno sforzo incredibile e fruttuoso. Serve tempo e per questo lo uso volentieri.

Crede che un insegnante possa fare la differenza per i suoi alunni?

Per me gli insegnanti, non uno solo ma tanti e non tutti, l’hanno fatta. Mi hanno anche insegnato a cogliere le differenze tra loro, permettendomi di selezionare gli stimoli più adatti a me.

Ha qualche progetto in mente?

Ho preso in mano progetti di lungo corso e attività passate, riorganizzando il materiale, cestinando quello che si è rivelato inutile e mettendo in ordine quello che ha avuto senso. Ho circa 5000 immagini da mettere a posto. Questo lavoro di auto-analisi mi sta aiutando tantissimo: è molto utile guardare indietro, vedere cosa ha funzionato e cosa no, prendere distanza… nella mia testa si formano dei pensieri nuovi.
Mi piace molto l’educazione all’immagine e con l’immagine, ed è per me importante ristabilire confini definiti. A 16, 17 anni si esce dal sé andando verso l’universale; in questo passaggio una lettura oggettiva dell’immagine li aiuta molto a crescere, a lasciarsi alle spalle l’autoreferenzialità soggettiva e a liberarsi dal diario segreto dell’adolescente.
di Federica Pascotto

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