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Parola agli insegnanti

Roberto Cipollone: la valutazione come dialogo e orientamento

Tempo di lettura stimato: 5 minuti
27 Giugno 2025

27 Giugno 2025

Dove insegna e com’è arrivato all’insegnamento?
Insegno matematica e fisica al Liceo classico statale Giosuè Carducci di Milano. Sono docente da quasi trent’anni: ho cominciato nelle scuole paritarie, sono entrato di ruolo in Sardegna come insegnante di informatica, e in seguito ho insegnato matematica a Roma.

Quando ho terminato l’istituto tecnico industriale non volevo continuare a studiare, perché avevo vissuto molto male gli anni delle superiori. Poi ho svolto il servizio militare in Friuli, dove ho conosciuto commilitoni provenienti da zone periferiche d’Italia che, lavorando già da tempo, hanno approfittato dell’anno di servizio per completare gli studi, prendendo la licenza elementare o la media. Quando la sera tornavamo dalle esercitazioni, verso le 10, dovevano studiare e mi chiedevano aiuto o spiegazioni. Quest’esperienza ha avuto un forte impatto su di me e ho iniziato a pensare che mi sarebbe piaciuto insegnare. Proprio per questo ho deciso di iscrivermi all’università, scegliendo Matematica, la disciplina che preferivo da sempre. Mi motivava non solo l’idea di dare una possibilità a persone come quelle che avevo conosciuto durante il servizio militare, ma anche, viste le brutte esperienze che avevo vissuto alle superiori, il desiderio di cambiare la scuola dall’interno.

In questi anni ha visto dei cambiamenti nella scuola, e quali?
Non ho visto moltissimi cambiamenti, soprattutto nella didattica. Si tengono ancora lezioni frontali in cui si spiega un argomento, si pongono agli studenti domande di cui si conosce già la risposta, e poi si giudicano con un voto. È sempre stato così, e al momento non vedo grandi stravolgimenti. Certo, si parla molto di sperimentazione e di nuove modalità didattiche, e capita che qualche insegnante le metta in pratica, ma dipende dall’iniziativa del singolo docente. A livello di sistema, i provvedimenti e le riforme sono più orientati all’efficientamento economico o al reperimento di nuove attrezzature; l’approccio pedagogico è lasciato alla buona volontà dei singoli insegnanti.
Nel suo caso, quali sono gli aspetti del suo insegnamento e le modalità didattiche a cui dà priorità?
Sono convinto che il mio mestiere non consista tanto nello spiegare o nel dire agli studenti cosa devono fare: oggi hanno a disposizione una quantità infinita di materiale, e sul web possono trovare video di docenti di matematica più bravi di me che spiegano questo o quell’argomento. Il mio compito è far sì che quelle conoscenze entrino davvero dentro di loro, per poi renderli capaci di utilizzarle.

Per questo, per me, un aspetto cruciale è la condivisione: li faccio spesso lavorare in gruppo, in modo che ciascuno possa diventare uno strumento di crescita per i propri compagni. Il mio è un approccio cooperativo, ispirato a quello che viene chiamato cooperative learning (approccio didattico in cui gli studenti lavorano insieme in piccoli gruppi per raggiungere un obiettivo comune).

Coerentemente con questa modalità didattica, la valutazione, per quel che mi riguarda, non coincide con il momento della verifica, ma è un percorso che parte dall’osservazione iniziale degli studenti e procede grazie alla possibilità di vederli in azione giorno per giorno. Nel cooperative learning, infatti, a differenza della lezione frontale, i ragazzi sono stimolati a fare domande e a cercare soluzioni insieme. In questo modo posso osservarli e trasformare la valutazione in un momento di dialogo, di orientamento.

Per lei la valutazione non coincide quindi con il “dare un voto”?

La valutazione per me è parte integrante dell’insegnamento, non una sua ricaduta. Non vado a verificare quanto gli studenti hanno imparato, ma li accompagno per capire, e far capire loro, a che punto si trovano nel percorso di apprendimento, dove stanno andando e come possono migliorare.

I feedback che do ai ragazzi non si limitano a dire “questo è giusto” o “questo è sbagliato”, ma cercano di andare più a fondo, indicando perché una scelta è stata efficace e un’altra no, e quali passi possono servire per procedere. Più che uno strumento di giudizio, si tratta di un gesto di responsabilità: è il momento in cui l’insegnante restituisce il senso di ciò che è successo in classe. E non è l’ultima parola, ma l’inizio di un dialogo.

Nella mia scuola, insieme ad altri docenti, abbiamo avviato una sperimentazione coerente con questa visione della valutazione, in accordo con la libertà concessa dalla normativa che non obbliga a conferire voti durante il corso dell’anno, ma solo in chiusura. In questi giorni, alla fine dell’anno scolastico, sto tenendo colloqui individuali con i ragazzi per capire com’è andata e devo dire che mi hanno dato bellissimi riscontri: si sentono responsabilizzati.
Ma questo tipo di valutazione “senza voti” serve anche a me, l’insegnante, perché mi obbliga a guardare con più attenzione ciò che propongo in classe e a capire se funziona. Si instaura così un ascolto reciproco tra docente e studenti, che è poi l’unico modo per migliorare la didattica e renderla più efficace.

La valutazione per me è parte integrante dellinsegnamento, non una sua ricaduta. Non vado a verificare quanto gli studenti hanno imparato, ma li accompagno per capire, e far capire loro, a che punto si trovano nel percorso di apprendimento, dove stanno andando e come possono migliorare.

Questa pratica di valutazione è diffusa? Il sistema scuola le dà spazio?
Non è certo la pratica più diffusa, ma diversi colleghi stanno tentando questa strada. Anche perché questo tipo di valutazione è in linea con diverse teorie pedagogiche (ad esempio quelle di Dewey o di Visalberghi e Lodi). Interessato a questo tema, ho frequentato un master in Valutazione educativa presso l’Università Roma Tre, coordinato dal professor Cristiano Corsini; la mia scuola ha poi avviato una collaborazione con il professor Franco Passalacqua, dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, che ha tenuto incontri di formazione per noi docenti. In queste occasioni si è parlato anche di quanto il voto non sia sempre utile ma possa diventare deleterio, rappresentando una forma di valutazione fine a sé stessa e non un processo di dialogo e apprendimento per gli studenti e per l’insegnante. Tra i docenti sono sorte obiezioni non tanto motivate da un approccio scientifico o animate da principi pedagogici, quanto suscitate da un istinto conservativo, dal “si è sempre fatto così”. Ci sono ancora molte resistenze, ma di fatto, nel sistema attuale, lo spazio per questa sperimentazione c’è. Io sono fortunato perché il mio dirigente scolastico ha creduto a questa innovazione. Ma bisogna comunque conoscere le norme che consentono questa possibilità: per esempio, il fatto che il voto in itinere, durante l’anno scolastico, non è obbligatorio. La libertà di insegnamento lascia un margine di autonomia all’insegnante anche su questo. Sta a noi docenti usarla con consapevolezza.
Negli ultimi anni si parla molto di una crescita delle fragilità in età adolescenziale. Come docente di scuola secondaria fa esperienza di questo? Crede che la scuola abbia mezzi per farvi fronte?
Gli anni del Covid hanno reso palese una situazione che era già presente: un senso diffuso di insicurezza e inadeguatezza negli studenti. Non sempre la scuola ha risposto in modo efficace; a volte, anzi, ha alzato l’asticella per recuperare il tempo perduto, senza soffermarsi a riflettere su cosa fosse davvero importante recuperare.
Io credo che anche in tal senso un nuovo sistema di valutazione possa essere uno strumento utile per accogliere questa fragilità e far emergere le risorse degli studenti, piuttosto che le loro mancanze, affinché la scuola non selezioni, ma accompagni. Spesso la valutazione è vissuta come il proscenio di un palcoscenico, un momento in cui si ha il terrore di fare brutta figura, di deludere o, peggio ancora, di ricevere un giudizio che può chiudere porte verso il futuro. Ma il problema non è l’errore, anzi spesso proprio quello è il punto di partenza per apprendere. Se non c’è spazio per sbagliare, non si capisce perché si dovrebbe venire a scuola.
Secondo lei l’insegnante può fare la differenza nella vita di uno studente?
In effetti, per me l’ha fatta. Ho vissuto così male il rapporto con i miei insegnanti che mi è venuta voglia di cambiarlo. Io credo che l’insegnante non abbia un ruolo salvifico, ma possa fare la differenza ogni volta che prende sul serio lo studente, ascoltandolo senza giudicare e lasciandogli spazio per sbagliare.

Fa la differenza quando non si nasconde dietro al programma da finire o al voto da dare, ma si prende il tempo per quello sguardo in più, che a volte cambia tutto. Quando ho iniziato a insegnare, un professore anziano mi disse che, di fronte a uno studente in difficoltà, a volte è molto più utile sedersi accanto a lui, piuttosto che insistere su ciò che non sta capendo.

Ecco, io credo che non si tratti di essere bravi, ma di essere presenti.

di Eleonora Recalcati

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